Crimini di pace in Chiapas: Il Manifiesto
«Per me la pace è più importante della morte. Per questo, anche se la mia vita è in pericolo ho deciso di restare al mio posto», dice Padre Marcelo Pérez Pérez, prete indigeno tzotziles e parroco della Diocesi di San Cristóbal de las Casas, nello stato messicano del Chiapas, riferendosi al fatto che, all’inizio di luglio, la Fiscalía General del Estado, l’equivalente della Procura italiana, ha emesso un ordine di arresto nei suoi confronti con l’accusa di aver partecipato alla sparizione forzata di 21 persone.
PADRE MARCELO PARLA senza fretta, anche se fuori dalla canonica della chiesa di Guadalupe, che sorge su una collina dalla quale si vede tutta la cittadina, lo attendono una decina di parrocchiani del vicino municipio di Simojovel, allarmati dalla notizia del suo arresto, velocemente smentita con un video sui social per evitare proteste e mobilitazioni in tutta la regione. Padre Marcelo è una figura conosciuta nella zona di Los Altos de Chiapas, una regione rurale tra le più povere del Messico. Per le sue battaglie a fianco delle comunità indigene, le sue denunce contro corruzione e criminalità e il suo ruolo di mediazione in situazioni di violenza, è stato minacciato, aggredito e diffamato.
Nelle scorse settimane, però, la sua storia ha sollevato la preoccupazione di associazioni locali e internazionali per un altro motivo: padre Marcelo rischia l’arresto. «Siamo profondamente preoccupati per l’intento di criminalizzazione nei suoi confronti», scrivono in una nota una serie di realtà internazionali, tra le quali Amnesty International e Frontline Defenders, che hanno chiesto al governo messicano di «archiviare processi giuridici senza fondamento contro difensori dei diritti umani avviati per reprimere, sanzionare e punire».
Le organizzazioni locali, tra le quali anche il Centro per i diritti umani Fray Bartolomé de las Casas (Frayba), parlano di un «sistema giudiziario imparziale e privo di obiettività», manifestando preoccupazione per il «possibile arresto, sparizione o omicidio» di padre Marcelo.
UNA STORIA CHE SI È RIPETUTA più volte nelle ultime settimane e che ha sollevato la condanna del vescovo della Diocesi di San Cristóbal de las Casas, Rodrigo Aguilar Martìnez, che con una nota ha denunciato l’impennata di violenza in Chiapas e puntato il dito contro la criminalizzazione subita dagli «agenti della pastorale» per il loro lavoro in difesa delle comunità indigene e di mediazione dei conflitti. «È chiara la strategia del sistema economico-politico che ci governa quando una comunità si organizza per difendere la sua terra, quando si denunciano le ingiustizie che commettono, a volte, le stesse autorità. Sembra il motivo per cui si risponde con persecuzioni, intimidazioni, minacce e arresti», si legge in un passaggio della nota.
Solo il 29 maggio, infatti, Manuel Santiz Cruz, presidente del Comitato per i diritti umani della parrocchia di San Juan Evangelista nel municipio di San Juan Cancuc, sempre a Los Altos de Chiapas, e altre quattro persone erano state arrestate prima con l’accusa di possesso di marijuana e poi per omicidio. Secondo quanto spiegato dal Frayba, i conflitti in quel territorio erano sorti perché le comunità indigene si erano opposte prima alla realizzazione della Carretera de las Culturas, una strada tra San Cristóbal de las Casas e Palenque collegata al megaprogetto turistico del Tren Maya, poi contro la militarizzazione della zona.
PER CARLOS OGAS DEL FRAYBA «la vicenda di padre Marcelo può essere compresa solo nel contesto più generale di ciò che sta accadendo in Chiapas dove, negli ultimi anni, abbiamo assistito a un aumento della presenza di gruppi di civili armati che si contendono il controllo economico e politico del territorio». Secondo il Frayba «c’è una continuità tra la nascita di questi gruppi, che ha portato a un incremento della violenza in Chiapas, e la strategia contro-insurrezionale legata all’Ezln operata dai gruppi paramilitari negli anni ‘90 e promossa dal governo messicano. Di fronte a questa violenza – conclude Ogas – le autorità sono assenti o partecipi e il sistema di giustizia che criminalizza i difensori dei diritti umani toglie degli ostacoli ai gruppi criminali».
Anche padre Marcelo nel 2014, quando era parroco nel municipio di Simojovel, a circa due ore da San Cristobal, ha denunciato e organizzato manifestazioni pubbliche con migliaia di persone contro alcolismo, prostituzione e traffico di droga, armi e persone da parte dei potentati locali. L’anno seguente, a causa delle minacce ricevute, la Commissione interamericana dei diritti dell’uomo aveva chiesto allo stato messicano misure di protezione per lui e per altri membri del consiglio parrocchiale.
NEGLI ANNI, RICORDA padre Marcelo, «ho sostenuto migliaia di desplazados (profughi, ndr) a causa delle violenze subite in questi territori e ho cercato sempre la pace facendo da mediatore in molti conflitti». Come quella scoppiato nell’estate del 2021 nel municipio di Pantelhó dove il 7 luglio era nato un gruppo di autodifesa formato da civili armati, chiamato El Machete, nelle intenzioni dichiarate dai suoi membri con lo scopo di allontanare una rete criminale locale che aveva il controllo delle istituzioni locali e dell’economia del territorio e lo esercitava con violenza, tra aggressioni, trasferimenti forzati, sparizioni e omicidi.
Due giorni prima, il 5 luglio 2021, in un mercato era stato ucciso con un colpo alla testa Simón Pedro, il presidente della storica comunità pacifista Las Abejas di Acteal che il 22 dicembre 1997, nel contesto della guerra del governo contro l’Ezln, aveva subito l’attacco di un gruppo di paramilitari terminato con il massacro di 45 persone, in maggioranza donne e bambini. Come ricostruito da un report del Frayba, nove giorni prima dell’omicidio Simón Pedro e altri esponenti della comunità avevano denunciato formalmente al governo del Chiapas le violenze che erano costretti a subire a causa della presenza dei gruppi armati legati al crimine organizzato.
Nei giorni seguenti, l’azione del gruppo di autodifesa armata aveva fatto impennare la violenza: saccheggi, case bruciate, oltre tremila persone costrette a fuggire e la militarizzazione del territorio con l’arrivo in massa di agenti di polizia statale e della guardia nazionale.
In questo contesto, il 26 luglio, 21 uomini accusati di far parte dell’organizzazione criminale sono stati radunati nella piazza centrale dal gruppo di autodifesa e poi fatti sparire. «I familiari mi accusano di essere responsabile di quella sparizione, ma io sono arrivato a Pantelhó solo il giorno seguente. Ero stato chiamato per mediare e costruire un tavolo di dialogo con il governo statale e federale», spiega padre Marcelo.
«CI SONO MOLTI TESTIMONI che sostengono che padre Marcelo non era a Pantelhó quel giorno – conferma Vico Galvez, avvocato del Fryba e legale del prete -. A dicembre dell’anno scorso la procura lo ha già sentito in merito. Nonostante questo, senza alcuna prova, lo si accusa di un fatto molto grave come la sparizione forzata che oltre a essere un reato è definito dalle convenzioni internazionali come un crimine contro l’umanità», conclude l’avvocato.
Padre Marcelo si dice sereno e pronto ad affrontare le conseguenze delle sue azioni: «Sono un costruttore di pace, anche se per il governo in Chiapas questo sembra essere un delitto».
Fuente original del texo periodístico:
https://ilmanifesto.it/crimini-di-pace-in-chiapas
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